Antonio De Lisa- Esistenzialismo, jazz e beat generation

La recente storiografia ha messo in luce con sufficiente chiarezza che la seconda metà del XX secolo è stato il secolo dei giovani. L’intero periodo – soprattutto a partire dagli anni Sessanta-  vede il sorgere  di importanti movimenti giovanili. E’ il momento in cui  adolescenti e giovani cominciano ad avere un’importanza rilevante nella società,  adottando  atteggiamenti, pensieri, filosofie, abbigliamento, musica, fortemente caratterizzanti. A loro volta questi modelli influenzano la musica, la televisione, il cinema e la moda. In questa sede prenderemo in considerazione il primo grande movimento giovanile europeo, quello esistenzialistico, nato nell’immediato secondo dopoguerra, e il primo movimento giovanile americano, quello della Beat generation. Al di là delle differenze e delle mutevoli prospettive c’è un filo rosso che li collega:  la musica jazz.

L’esistenzialismo filosofico

Corrente filosofica sorta in Germania sulla scia di quella rinascita del pensiero di Kierkegaard che ebbe il suo miglior frutto nel commento di Karl Barth (1919) all’Epistola ai Romani di San Paolo. L’esistenzialismo prese il nome di Existenzphilosophie (filosofia dell’esistenza) nei suoi due fondatori tedeschi: Karl Jaspers e Martin Heidegger, i quali attinsero dal pensiero di Kierkegaard la rivalutazione del singolo gettato nella sua finitezza, abbandonato alla sua scelta, chiuso nella sua angoscia, prigioniero della sua colpa, di fronte all’ottimismo e al panlogismo della filosofia hegeliana. Attraverso Kierkegaard l’esistenzialismo si riconnette dunque con la dissoluzione dell’hegelismo, cioè con quel movimento che ha caratterizzato i decenni centrali del sec. XIX, e che ancora domina la scena filosofica con l’enorme diffusione del pensiero di Marx (il quale sia pure con esito diverso si alimenta a quella stessa fonte).

Alla stessa problematica della dissoluzione dell’hegelismo si ricollegano due altri pensatori di origine diversa, i quali, pur avendo incontrato Kierkegaard soltanto più tardi, meritano per quella derivazione comune il nome di esistenzialisti: il francese G. Marcel e il russo N. Berdjaev. Il primo prende le mosse da un ripensamento del neohegelismo anglo-americano di Bradley e di Royce; il secondo deriva da una forte esperienza marxistica; entrambi hanno alle origini del loro pensiero un’intensa meditazione su Schelling, la cui lotta contro Hegel, celebratasi a Berlino negli anni Quaranta del sec. XIX e in generale in tutto il pensiero ottocentesco russo (non ultimo Dostoevskij), appartiene con ogni evidenza alla dissoluzione dell’hegelismo. All’esistenzialismo si rifanno il francese J.-P. Sartre e l’italiano N. Abbagnano, anche se le fasi precedenti e successive del loro pensiero dimostrano che nel primo si tratta d’una forma di fenomenologia legata al pensiero di Marx e nel secondo d’una specie di pragmatismo sociologistico.

Le opere principali dei veri e propri esistenzialisti si scandiscono nel giro di pochi anni: sono del 1927 Essere e tempo di Heidegger e il Diario metafisico di Marcel, del 1932 i tre volumi della Philosophie di Jaspers e del 1933 Spirito e libertà di Berdjaev. I concetti fondamentali dell’esistenzialismo si ritrovano nella costituzione di una filosofia della persona, che afferma, contro ogni sua possibile integrazione in una totalità onnicomprensiva, la persona umana come singola e irripetibile, unica e intera: vera realtà concreta, irriducibile sia alla mera “possibilità” sia alla pesante “necessità” d’un sistema logico o sociale, teocentrico o umanistico che sia, fino ad arrivare a una filosofia della libertà. L’esistenzialismo ha infatti della libertà un senso così acuto da sfiorare sia l’arbitrarismo, per il quale tutto dipende dalla scelta del singolo, sia il nichilismo, nel senso che la “vertigine della libertà”, esprimendosi nell’angoscia, rivela il “poter non essere”, il nulla su cui si ritaglia la concretezza stessa dell’uomo; ma a ben vedere il senso esistenzialistico della libertà, dando all’uomo la consapevolezza della propria finitezza, lo piega all’accettazione attiva di “quello che si è”, in una sorta di obbedienza creatrice del proprio compito personale e insostituibile. Si tratta infine di una filosofia in cui il rapporto con l’essere è inseparabile dal rapporto che la persona ha con se stessa, sì che viene oltrepassata per un verso ogni forma di umanismo – ignara della trascendenza e contenta del finito – e per l’altro verso ogni forma di oggettivismo, nel senso che l’essere è inoggettivabile, e l’uomo non può parlarne impersonalmente, né può metterlo in questione senza mettere in questione se stesso. (Fonte: sapere.it)

Jean-Paul Sartre
Jean-Paul Sartre

In Francia nell’immediato dopoguerra l’esistenzialismo è segnato indelebilmente dalla figura di Jean-Paul Sartre (1905 – 1980). L’importanza e la grandezza di Sartre scrittore sono legate alla terribile densità del mondo da lui elaborato intellettualmente, rappresentato e messo in scena: un mondo assurdo e ripugnante, un mondo “a porte chiuse”, dominato dall’orrore per la condizione stessa dell’esistere. E tuttavia la possibilità di una via di uscita è accennata e consiste nel farsi carico, ancora una volta, del proprio agire e nella capacità di accogliere in sé una forte responsabilità etica e politica.

Albert Camus
Albert Camus

Figura alternativa a quella di Sartre fu quella di Albert Camus (1913- 1960). Le grandi linee della sua filosofia umana e letteraria possono reperirsi nei saggi dell’Envers et l’endroit (1937; Il diritto e il rovescio) e di Noces (1938; Nozze), fondate principalmente sulla constatazione dell’ineliminabile assurdità della condizione umana. In quei primi saggi Camus esprime la certezza che non vi sia altra via di scampo per l’umanità al di fuori di questo mondo. Per ora egli cerca nella terra, nella natura stessa (solare e mediterranea) il contatto con la realtà, una ragione di vita. Così ancora nel libro che lo rese famoso, L’étranger (1942; Lo straniero), e nei saggi del Mythe de Sisyphe (1942; Il mito di Sisifo) dove il sentimento dell’assurdo, che non è nell’uomo e neppure nel mondo, ma nella coesistenza degli esseri umani, trova la sua tesi. “Vivere significa far vivere l’assurdo” e ciò che conta, per quanto nelle possibilità dell’uomo, è trasformare quest’assurdo. Dall’esperienza individuale Camus passò più tardi all’esperienza generale nell’Homme révolté (1951; L’uomo in rivolta) dove l’individuo esce dalla propria solitudine, ribellandosi alla distanza creatasi tra lui e il mondo, in uno slancio per la creazione di una società nuova che rivela come “la vera generosità verso il futuro consista nel dare tutto al presente”. Nel romanzo La peste (1947), nei drammi dell’État de siège (1948; Lo stato di assedio) e Les justes (1950; I giusti) si fa luce una morale relativamente ottimista, quella della solidarietà con gli uomini “nelle sole certezze che hanno in comune e che sono l’amore, la sofferenza, l’esilio”, maturata da Camus negli anni della Resistenza, della lotta per la liberazione dell’uomo condotta dalle pagine di Combat (di cui nel 1945 era diventato redattore capo), dalle esperienze che lo portarono a respingere le conclusioni dell’esistenzialismo sartriano e quelle del materialismo marxista.

Le caves di Parigi

Le Tabou Club

Parigi nell’immediato secondo dopoguerra  è la capitale europea del jazz; qui trovano rifugio molti musicisti di colore in fuga dall’America razzista, che non considera il jazz un’arte, cosa che avviene nei clubs della capitale francese, dove giovani intellettuali e artisti sono affascinati dalla musica afroamericana. Boris Vian, Sartre, Simone De Beauvoir, Juliette Gréco, frequentano i locali dove si suona jazz: testimonianze di questo interesse sono in molte opere letterarie del periodo. La Parigi intellettuale è sulla riva sinistra, la “Rive Gauche”, famosa per i suoi “bistrot” (caffè) e per i suoi eccezionali fermenti culturali e si apre verso quartieri come St. Germain-del-Prés. In questo quartiere, alla fine dell’800, due caffè, il “Flore” e il “Deux Magots”, ospitavano intellettuali e politici; anche durante le due guerre i caffè continuarono ad esercitare un’importante funzione politica e culturale; nel 1942 frequentato dal filosofo Sartre e dalla sua compagna e scrittrice Simone de Beauvoir, il “Flore” divenne il tempio dell’intellighenzia francese. Più tardi i caffè si rivelarono troppo dispersivi e gli intellettuali si rifugiarono nelle “caves” ove si suonava jazz e si cantavano canzoni di protesta: Juliette Gréco, simbolo del costume francese del dopoguerra, esordì nel 1944 al “Tabou”, la prima “cave” esistenzialista.

Boris Vian

Boris Vian
Boris Vian

Autore anche di racconti e canzoni, Vian ha suonato la sua tromba tascabile (che nei suoi scritti si ritrova spesso sotto il nomignolo “trompinette”) nel celebre “Tabou”, club (ormai chiuso) situato nella Rue Dauphine, nei pressi di Saint Germain des Prés, a Parigi. La sua canzone più famosa è “Le déserteur“, dal testo spiccatamente pacifista, scritta durante la guerra d’Indocina. Le sue canzoni sono state riprese da moltissimi artisti, tra cui Luigi Tenco Juliette Gréco, Nana Mouskouri, Yves Montand, Magali Noel, Henri Salvador, Ivano Fossati, Fausto Amodei e Le luci della centrale elettrica. Serge Gainsbourg ha affermato che vedere Boris Vian all’opera lo ha ispirato a tentare di scrivere lui stesso delle canzoni.

Le déserteur

(1955) La France d’autrefois – Extrait de: Chansons impossibles (avec Jimmy Walter et son ensemble)
PAROLES: (Boris Vian)
Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps.
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Monsieur le Président
Je ne veux pas la faire
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens
C’est pas pour vous fâcher
Il faut que je vous dise
Ma décision est prise
Je m’en vais déserter.

Depuis que je suis né
J’ai vu mourir mon père
J’ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants
Ma mère a tant souffert
Elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers
Quand j’étais prisonnier
On m’a volé ma femme
On m’a volé mon âme
Et tout mon cher passé
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte
Au nez des années mortes
J’irai sur les chemins.

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France
De Bretagne en Provence
Et je dirai aux gens:
Refusez d’obéir
Refusez de la faire
N’allez pas à la guerre
Refusez de partir
S’il faut donner son sang
Allez donner le vôtre
Vous êtes bon apôtre
Monsieur le Président
Si vous me poursuivez
Prévenez vos gendarmes
Que je n’aurai pas d’armes
Et qu’ils pourront tirer.

Appassionato di jazz, è stato il “contatto” (tra gli altri) di Duke Ellington e Miles Davis a Parigi. Ha scritto su diverse riviste francesi di jazz (Le Jazz Hot, Paris Jazz) e ha pubblicato numerosi articoli sull’argomento anche in America. Nonostante non abbia mai messo piede in America, i temi di questo paese, il jazz in particolare, si ritrovano spesso nell’arte di Vian. Le sue opere letterarie sono infatti intimamente intrecciate al suo amore per il jazz. Nella prefazione a L’Écume des Jours, ha scritto: “Sono solo due le cose che contano: l’amore, in tutte le sue forme, con belle ragazze, e la musica di New Orleans e di Duke Ellington. Tutto il resto è da buttar via, perché è brutto…“.

Vian era perfettamente inserito nella “scena” parigina di quegli anni, con tutte le carte in regola; scoperto e protetto da Raymond Queneau, che gli aprì le strade di Gallimard, collaboratore di “Les temps modernes”, la rivista di Jean Paul Sartre, inventore di Saint Germain e le sue caves poeticizzate da Juliette Greco, vicino di casa di Jacques Prévert, suonatore professionista di tromba nei complessi di jazz classico, ospite delle sedute famose dei “satrapi” eredi di Alfred Jarry e delle sue farneticazioni e satrapo egli stesso del Collegio di Patafisica (insieme per esempio a René Clair, Jacques Prévert, Siné) surrealista e delirante, cantante in pubblico con Magali Noël: ci si è sempre chiesti come abbia potuto svolgere in soli 39 anni di vita un destino così completo da poeta maledetto.

Juliette Gréco

Juliette Greco
Juliette Gréco

“Mi chiamo Juliette Gréco, e non ho mai avuto uno pseudonimo. Sono nata il 7 febbraio 1927. Mia madre mi ha detto che quel giorno pioveva, e la pioggia favorisce la crescita di tutte le piante, anche quelle più velenose”.

Di padre còrso di origini italiane e madre sovversiva, bordolese, cioè attivista della resistenza. Rischia di esser deportata in un campo nazista, la scampa e vive e cresce con i nonni materni. Arrivò a Parigi dopo la guerra, era il 1946 e cominciò a cantare per i pochi locali rimasti a Parigi.   Juliette Gréco è la signora dell’esistenzialismo. O forse, soltanto Jujube, come è stata chiamata, anche se a Le Tabou, il cabaret dove si impose a partire dal 1945, nel gruppo teatrale di Anne-Marie Cazalis, era nota come la Toutoune, cioè il cagnolino buono.
Vera icona di anni bellissimi e irripetibili. Anni in cui Prévert, Sartre, Queneau, Mauriac, Ferré, Vian, Aznavour, Bécaud e altri scrivevano per lei canzoni o brandelli di vita, aspettando l’alba sulla rive gauche di una Parigi illuminata dall’esistenzialismo e dalle collaborazioni fra poeti, scrittori e musicisti. Lei, la pallida Gréco, che secondo Pablo Picasso “si abbronzava alla luna”, diventò la musa di quei giovani ribelli che cospiravano artisticamente nelle caves esorcizzando il dopoguerra che non finiva mai. Regina di una nuova canzone letterariamente raffinata, intellettuale, percorsa e scossa da una vena neppure troppo sottile di angoscia, seppe imporsi per il suo anticonformismo, artistico e privato.

Interprete di canzoni cpme Si tu t’imagines (1950), Je suis comme je suis (1951), Les Dames de la poste (1952), Déshabillez-moi (1967), il repertorio delle canzoni di Juliette Greco è  incentrato su versi scritti da autori celebri, letterati: Raymond Queneau (Si tu t’imagines), Jean-Paul Sartre, amico personale della cantante (La Rue des Blancs-Manteaux) o Jacques Prévert (Les feuilles mortes).Testi raccolti dalla cantante e poi trasposti in musica da Joseph Kosma. Un immaginario alto, colto, da signora dell’aristocrazia, da amante del “Bien de vivre”.

Je suis comme je suis

Déshabillez-moi

La Rue des Blancs-Manteaux

Jazz e Beat generation americana

I giovani beat studiano il neoplatonismo di Plotino, le teorie cosmogoniche contenute nel libro Eureka di Edgar Allan Poe, le poesie mistiche e i trattati ascetici di San Giovanni della Croce, la telepatia e la cabala.

Il termine “beat” riecheggia sia la spontaneità del battito ritmico della musica jazz sia le gioie “beatific” del misticismo orientale, due componenti vitali nella produzione letteraria Beat. Questo movimento, simile ma più radicale di quello degli “Angry Young Men” d’Inghilterra, iniziò a San Francisco, nei cui caffè e gallerie d’arte poeti e scrittori leggevano, al suono della musica jazz, le loro opere che volevano esprimere lo spirito di una nuova generazione in rivolta contro il conformismo e la rispettabilità della classe media americana; contro un “establishment” che mirava soprattutto a mantenere i valori borghesi e l’economia capitalistica del dopoguerra. Dal punto di vista storico, fu contro un falso senso di sicurezza creato in America dalla guerra fredda e dalla disfatta coreana che le opere di questi scrittori si imposero. Dal punto di vista letterario, proponendo opere spontanee nella forma e libere nello stile e nel verso, i Beats vennero riconosciuti, fin dagli inizi degli anni sessanta, come un nuovo movimento estetico che esaltava i temi della riscoperta della libertà individuale attraverso l’istinto, l’occasionalità, il misticismo orientale, l’uso della droga e fissando un canone poetico in cui il discorso manifesta un rapporto viscerale con il linguaggio. Questi scrittori che, diversificandosi, produssero lirica pura, satira, prosa autobiografica, manifesto politico, poesia spontanea, memorie, riff epistolare e satira manifestarono, secondo Anne Waldman, “un impulso a scrivere che si concentra e si centra nella magnanimità attraverso il linguaggio. Ritmi naturali del parlato americano, ritmi jazz, ritmi del viaggio in carro merci, ritmi industriali, rapsodia, abili giustapposizioni di cut-up verbale e un’espansività che rispecchia il caos primordiale, tutto ciò è messo costantemente in opera. Un tipo di scrittura che fa sberleffi allo stile auto compiaciuto.”

Anticipatore era stato il movimento degli hipster. Questo gruppo di figure distaccate rappresenta la corrente esistenzialista statunitense, che riconosce il rischio di una guerra atomica, e sente oppressivamente il peso della società consumistica statunitense del dopoguerra e dell’asfissiante standardizzazione delle masse.

Hipster è un termine nato negli anni quaranta negli Stati Uniti per descrivere gli appassionati di jazz e in particolare di bebop. Si trattava in genere di ragazzi bianchi della classe media, che emulavano lo stile di vita dei jazzisti afroamericani. Questo tipo di sottocultura si ampliò rapidamente, assumendo nuove forme dopo la seconda guerra mondiale, quando al movimento si associò una fiorente scena letteraria. Jack Kerouac descrisse gli hipster degli anni quaranta come anime erranti portatrici di una speciale spiritualità. Fu però Norman Mailer a dare una definizione precisa del movimento. In un saggio intitolato Il bianco negro (1967), Mailer descrisse gli hipster come esistenzialisti statunitensi, che vivevano la loro vita circondati dalla morte – annientati dalla guerra atomica o strangolati dal conformismo sociale – e che decidevano di «divorziare dalla società, vivere senza radici e intraprendere un misterioso viaggio negli eversivi imperativi dell’io».

L’autore Frank Tirro, nel suo libro Jazz: a History (1977), definisce in questo modo gli hipster degli anni quaranta:

«Per l’hipster, Charlie Parker era il modello di riferimento. L’hipster è un uomo sotterraneo, è durante la seconda guerra mondiale ciò che il dadaismo è stato per la prima. È amorale, anarchico, gentile e civilizzato al punto da essere decadente. Si trova sempre dieci passi avanti rispetto agli altri grazie alla sua coscienza. Conosce l’ipocrisia della burocrazia e l’odio implicito nelle religioni, quindi che valori gli restano a parte attraversare l’esistenza evitando il dolore, controllando le emozioni e mostrandosi cool? Egli cerca qualcosa che trascenda tutte queste sciocchezze e la trova nel jazz.»

Gli hipsters sono distaccati, conoscono i pericoli e, perciò, si licenziano dalla società iniziando ad inseguire la loro esistenza profonda. Gli hipsters sono i tipi seri, abbottonati, misticamente in preda all’eroina che Kerouac descrive nella prima parte de I sotterranei.

Accanto a questi personaggi emergono i beat. Tra gli autori di riferimento: Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Neal Cassady, Gary Snyder, Lawrence Ferlinghetti, Norman Mailer.  I giovani beat sofferenti e focosi, dediti all’alcol e alla marijuana, poeti, romanzieri, che vorrebbero condividere con l’umanità il loro amore per il tutto e, invece, si sentono incompresi. Per il loro stile di vita sono accomunati spesso alla “Lost Generation”, e per stessa ammissione di molti scrittori beat, Whitman ed Hemingway sono alle origini delle loro ideazioni letterarie. Ma, in realtà, il movimento beat ebbe una portata assai più sconvolgente, grazie anche al periodo in cui emerse.

Il rapporto del movimento Beat con il jazz è molto più fecondo di contaminazioni tra suggestioni musicali e letterarie di quanto non accada in Europa. Le nuove generazioni di intellettuali ribelli sia in America che in Europa però riconoscono nel jazz la sua qualità di essere una musica anticonformista. Il grande storico Eric J. Hobsbawm ha dedicato un capitolo importante del suo saggio all’analisi del pubblico in America e in Europa, con particolare attenzione alla “sua” Inghilterra. Fa notare Hobsbawm che già i ragazzi della Austin School di Chicago tra cui erano Bix Beiderbecke, Pee Wee Russell, Bud Freeman e Dave Tough, erano rampolli della buona borghesia americana: questo fatto è provato dalla mancanza tra loro di cognomi italiani o slavi che vediamo costantemente apparire negli altri capitoli della storia del jazz. Questi giovani avevano pretese intellettuali, leggevano scrittori “impegnati” e si ribellavano contro la “rispettabilità” della classe media, condividevano spesso l’idealizzazione del nero che in uno di loro, Milton Mezzrow, arriva a dei livelli preoccupanti. Gli amatori degli anni trenta sono spesso giovani con tendenze radicali delle più facoltose e influenti famiglie dell’est, spesso appartengono ai ceti medi dei liberi professionisti come avvocati e medici che rifiutano i loro diritti di nascita o addirittura accettano un declassamento sociale volontario per avvicinarsi alla vita bohémien dei musicisti jazz.

“La loro protesta – scrive Hobsbawm- ha anche un senso politico, in quanto è gente che rifiuta in blocco l’American way of life, senza peraltro sostituirle niente oltre la musica, la filosofia esistenzialista d’avanguardia, oltre a un certo anarchismo personale”.

Lo storico inglese parla della generazione di appassionati degli anni Trenta, ma gli stessi scrittori della beat generation, gli Hipsters che seguono il bebop, rientrano perfettamente in questa descrizione, segno che forse l’evoluzione del pubblico non è poi caratterizzata da discontinuità così nette tra il jazz pre-bop e, generalizzando, quello avanguardistico bop e post-bop. Forse la conclusione che si può trarre al di là delle contrapposizioni borghesia-proletariato, musica di massa/avanguardia elitaria è un’altra: l’evoluzione del pubblico mostra una linea tendenziale che più o meno rimane la stessa. Musica per un pubblico eterogeneo, costituito da un numero elevato di persone dotate di una buona scolarizzazione. Nel novero dei giovani che gli si sono accostati in passato, ma nulla vieta che una indagine sociologica riesca a dimostrare che lo stesso vale oggi, è presente una quota rilevante di ribelli e anticonformisti in rivolta contro il mondo.

Ecco la conclusione cui perviene Hobsbawm per spiegare questo aspetto protestatario insito nella natura stessa del jazz:

“Trattandosi di una comunità di ribelli, la comunità dei jazz-amatori finisce sempre col trovare delle affinità con altri movimenti di opposizione, e qualche volta, come nei paesi anglosassoni degli anni trenta in poi, si impregna totalmente di ideologie protestatarie. Normalmente però, trattandosi di un pubblico eterogeneo e individualista, esso rimane ai margini della politica attiva, ed attrae tanto coloro che vogliono sottrarsi alle convenzioni, quanto coloro che vogliono abbatterle. Il jazz degli anni venti era completamente apolitico. Quello del ventennio successivo si orientò a sinistra, e senza dubbio partecipò alle attività della sinistra, così come non è da escludersi che in molti paesi socialisti il jazz sia vagamente antisocialista ed immischiato in attività antisocialiste”.

La prosa spontanea e il ritmo jazz di Kerouac

Jack Kerouac
Jack Kerouac

L’influenza del jazz sulla scrittura creativa è stato profondo, in particolare su quella di Jeck Kerouac
Il nuovo modo di scrivere adottato da Kerouac venne definito da lui stesso come prosa spontanea, caratteristico per la sua immediatezza e il suo rapido fluire, simile a quello della musica jazz. Qui di seguito alcune caratteristiche della prosa spontanea enunciate da Jack Kerouac.

DISPOSIZIONE: l’oggetto è posto di fronte alla mente, nella realtà, come in un disegno […]

PROCEDIMENTO: essendo il tempo fondamentale nella purezza del discorso, il linguaggio che disegna è un flusso imperturbato della mente di segrete parole-idea personali, che soffiano (come nel caso del musicista jazz) sul soggetto dell’immagine.

METODO: niente punti a separare strutture-frase gia rese arbitrariamente enigmatiche da ingannevoli due punti e timide virgole di solito inutili ma il vigoroso trattino a separare il respiro retorico […]

RAGGIO D’AZIONE: niente selettività di espressione ma seguire la libera deviazione della mente negli illimitati soffia-sul-soggetto mari di pensiero […]

INDUGI NEL PROCEDIMENTO: niente pause per pensare alla parola giusta ma l’accumulo infantile di un concentrato scatologico di parole finché non si ottiene soddisfazione, che si rivelerà come un grande ritmo […]

CENTRO DI INTERESSE: non partire da un’idea preconcetta di cosa dire su un’immagine ma dal gioiello centrale di interesse nel soggetto dell’immagine al momento di scrivere […]

STATO MENTALE: se possibile scrivi senza coscienza in semitrance permettendo all’inconscio di far entrare il proprio linguaggio non inibito, interessante, necessario e dunque moderno cosa che l’arte cosciente censura, e scrivi con eccitazione, rapidità con crampi da scrittura o battitura, secondo le leggi dell’orgasmo, l’offuscamento della coscienza di Reich. Vieni da dentro, fuori al rilassato e al detto.

BIBLIOGRAFIA

Vito Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, 1975.

Antonio De Lisa- Il jazz tra radici blues, modalismo e avanguardia, in “Cronaca e Storia”

Weiner Susan, “Enfants Terribles: Youth and Femininity in the Mass Media in France, 1945-1968″, The Johns Hopkins University Press, 2001.

Frak Tirro, Jazz: a History, 1977.




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